BLOG DEL COLLETTIVO LAVORI IN CORSO

L’AUTUNNO CI (A)SPETTA!

by on Ott.08, 2010, under General

ANALISI CRITICA DEL DDL 1905 E DELLA RIFORMA GELMINI

a cura di Red-Net rete delle realtà studentesche autorganizzate

red-net.it

Per il prossimo autunno, temporali su tutto il territorio italiano ma la stagione si preannuncia molto calda.
Le prime avvisaglie sono soltanto le conseguenze della crisi economica che ha investito (e continua a farsi
sentire nonostante le dichiarazioni del Governo e di Confindustria) l’Italia e il mondo intero negli ultimi anni
e che ha ovviamente colpito le classi più deboli: migliaia di lavoratori saranno costretti a rimanere a casa,
altri non riceveranno più la cassa integrazione, nuovi tagli sono in arrivo per tutti i settori del welfare state,
dalla sanità ai trasporti, passando – ovviamente – per la scuola pubblica. Di fronte alla crisi economica
dilagante la strategia utilizzata dai governi è sempre la stessa: tagliare ciò che resta dello stato sociale
sacrificando servizi, salari, pensioni – e persino diritti! – in favore di banche, imprese e speculatori di tutti i
tipi, generando così un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita delle classi subalterne.
In questo scenario di manovre economiche volte al “risparmio” (leggi: sacrifici per noi, profitti per loro) non
poteva non essere compresa anche l’Università, coinvolta in tale strategia con il Decreto Di Legge 1905,
ulteriore tassello della Riforma Gelmini.
Il DDL in questione è stato già approvato dal Senato a fine luglio e, al di là del voto contrario della
cosiddetta “opposizione”, pare proprio che i suoi principi ispiratori siano condivisi da tutti: sono infatti gli
stessi affermati prima dalla riforma del sistema universitario avviata da Ruberti nel 1990 e poi dalle riforme
che si sono susseguite con il Processo di Bologna (1999), fossero esse proposte da governi di centro-destra
(Moratti) o di centro-sinistra (Berlinguer, Zecchino). D’altra parte la politica universitaria europea è definita
dall’ERT (European round table of industrialists – una potente lobby economica in Europa) e applicata al
contesto nazionale da Confindustria, ai cui dettami i governi sono da sempre sottomessi.
È quindi logico aspettarsi che il DDL passi alla Camera, magari con qualche modifica marginale, fra
novembre o dicembre, dopo l’approvazione della prossima finanziaria. E perciò solo chi lavora e vive
l’Università può impedire quest’ennesima controriforma, volta a smantellare un settore pubblico già
bersagliato e sottofinanziato!
Ma vediamone meglio i dettagli, perché ci sono tanti provvedimenti che ci riguardano da vicino, e
cerchiamo di capire come contrastarla…

1. Aziendalizzazione
Il processo di privatizzazione e di aziendalizzazione di cui il movimento studentesco dell’Onda parlava nel
2008 si sta concretizzando. “Privatizzazione” non significa solo un aumento della presenza dei privati negli
organi decisionali delle università, ma anche e soprattutto l’adozione di strumenti, logiche e pratiche tipici
del settore privato. L’Università, il cui scopo dovrebbe essere formare degli individui consapevoli e critici,
abituati a cooperare per il progresso materiale e spirituale della maggioranza della società, si sta
trasformando in un’azienda con un manager-rettore ed un Consiglio di Amministrazione che devono fare
cassa, vendendo la merce-cultura e raggiungendo in ogni modo obiettivi di produttività.

Questo processo rafforza le gerarchie interne agli atenei, peggiora i corsi di studio ed i servizi agli studenti, determina

un asservimento acritico all’ideologia del profitto1.Vediamo ad esempio la struttura organizzativa degli organi di gestione prevista dal DDL. Diventa più netta
la separazione di competenze tra Senato Accademico (SA) e Consiglio d’Amministrazione (CdA).
Quest’ultimo dovrà prevedere almeno tre membri esterni (art.2.2.i) e, cosa ancor più rilevante, si appresta
a diventare l’organo preponderante di governo universitario. Il DDL assegna infatti al Senato Accademico
(SA) “la competenza a formulare proposte e pareri in materia di didattica e di ricerca” (art.2.2.e) e al CdA la
funzione di “indirizzo strategico”, “programmazione finanziaria” nonché “l’attivazione o la soppressione di
corsi e sedi” (art.2.2.h).
L’eliminazione di un corso, quindi, non risponderà a criteri didattici ma solo a criteri finanziari, e i corsi
ritenuti “improduttivi” saranno soppressi, mentre tenderanno ad aumentare corsi rispondenti a precise
esigenze provenienti dall’esterno. Alcune aziende potranno decidere di finanziare intere cattedre
(art.9.2.h), reclutando docenti e ricercatori perché preparino personale specializzato da utilizzare nella
propria impresa2.
Rispondendo alla stessa logica dell’“economicità” (leggi: tagli e licenziamenti) che diventerà ormai il
principio guida del funzionamento dell’università, il DDL parla anche di “razionalizzazione” dell’offerta
formativa. “Razionalizzazione” che inevitabilmente si concretizza in ulteriori tagli, o fusioni o federazioni,
di corsi o intere facoltà. L’unico motivo per cui queste dovrebbero avere luogo, infatti, sarebbe un
risparmio sulla spesa complessiva, senza alcun riferimento ad esigenze di carattere didattico e formativo e
quindi senza alcun miglioramento della qualità dell’istruzione. Ancora una volta sono le esigenze
particolaristiche e di azienda che orientano il cambiamento dell’Università e non le esigenze degli studenti3.

2. Ricercatori e docenti
Dietro la bandiera di un’ideologica guerra ai “fannulloni” (come se poi i politici o i top manager si
ammazzassero di lavoro!), il DDL fa sì che la già enorme schiera di precari rimanga tale. Il contratto a tempo
indeterminato per i ricercatori sparisce del tutto e sarà possibile avere solo contratti a tempo determinato
di 3 anni rinnovabili di altri 3! A condizione ovviamente che il lavoro svolto in questo lasso di tempo sia
“produttivo” (ci sorge spontanea un’altra domanda: produttivo per chi? In base a quali criteri sarà giudicato
il lavoro di un giovane ricercatore?).
Dopo i sei anni di precariato (da aggiungere ai 5 universitari, ai 3 di dottorato, ai 5 in media passati fra altre
borse e contratti precari), cioè intorno ai quarant’anni, i ricercatori dovranno conseguire l’abilitazione
scientifica per diventare professori associati. Ma siccome i posti sono pochi, passano solo quelli portati
avanti da baroni o politici di turno; gli altri ritornano a far parte della schiera dei precari, percependo nel
migliore dei casi stipendi ridicoli che non coprono neanche il “rimborso spese”!
In questo modo ad essere colpiti non sono i famosi “fannulloni” e gli incompetenti, spesso protetti da
docenti molto influenti all’interno dell’ateneo, ma i lavoratori che già sono in una condizione di
precariato e che non sono legati a nessuna “cordata”. Tale ddl, infatti, per quanto riguarda il reclutamento
dei ricercatori, rinforza la cooptazione universitaria e con essa i rapporti baronali. Perdono di importanza le
posizioni di ruolo (le uniche figure di ruolo saranno i professori ordinari e associati), lasciando spazio agli
incarichi a tempo determinato, a ridotta autonomia e meglio governabili dalle gerarchie baronali. Tra gli
attuali ricercatori di ruolo e i futuri ricercatori a tempo determinato si innesca una forte competizione per
l’entrata nel ruolo dei professori associati: i ricercatori a tempo determinato sono “privilegiati” in questa
competizione perché possono essere reclutati tramite chiamata diretta, senza dover passare per il concorso
nazionale. Quel che realmente si nasconde sotto questa operazione è una ridefinizione nel senso della privatizzazione di quello statuto giuridico che l’art. 34 del DPR 382 del 1980 (“Disciplina dello stato giuridico
dei ricercatori universitari”) ha lasciato in sospeso da oltre trent’anni. Il ricercatore a contratto è infatti una
figura di diritto privato e come tale si troverà ad essere semplice controparte (debole e frammentata)
all’interno di una logica generale di confronto di interessi privati. Nessuna autonomia didattica! Nessuna
ricerca al di fuori degli interessi industriali e di parte a cui i ricercatori saranno infine inevitabilmente
piegati!
Non a caso, allora, l’unico emendamento al DDL che andava minimamente ad intaccare il potere baronale
(quello che prevedeva per i docenti l’abbassamento dell’età pensionabile a 65 anni), è stato rigettato. Prof
in pensione a 70 anni, cioè altri cinque anni di “lavoro” poco usurante e di mantenimento della propria
posizione di potere e del proprio status all’interno e all’esterno dell’università…
La conseguenza è che, se nel sistema attuale – non certo idilliaco – i ricercatori godono, almeno in linea
teorica, di ampi margini di autonomia (compromessi dal ruolo di portaborse che essi svolgono assai spesso
nei confronti dei loro protettori), ora i nuovi ricercatori saranno ricattabili dai loro protettori locali lungo
tutta la durata dei loro contratti (che rimangono assegnati su base cooptativa e non da una commissione
nazionale), prima per l’ottenimento del rinnovo, poi ai fini della chiamata diretta. Bel modo per avere una
ricerca indipendente, creativa, incentivata e tutelata!
3. Aumento delle tasse
Un dato quantitativo: il Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO), che insieme alle contribuzioni
studentesche e alle “donazioni” di privati costituisce fonte di entrata per le università, subirà un taglio di
1,3 miliardi di euro. Per compensare la perdita è quasi inevitabile che saranno le tasse degli studenti ad
aumentare4, causando un ulteriore disagio a quegli studenti che non hanno le possibilità economiche di
sostenere le già ingenti spese per i loro studi. Studi che vedono già moltissimi ostacoli nella carenza di
servizi come borse di studio, mense pubbliche, residenze, biblioteche, etc.

4. Diritto allo studio
Nel DDL il concetto stesso di “diritto allo studio” subisce una radicale trasformazione. Se prima questo,
almeno sulla carta, era legato soprattutto a criteri di reddito con l’obbiettivo di garantire la possibilità di
studiare anche agli studenti provenienti dalle fasce meno agiate, ora saranno esclusivamente criteri di
“merito” a determinare l’erogazione di borse di studio. Assistiamo ad esempio all’istituzione del
cosiddetto “Fondo per il merito”, destinato a fornire “buoni studio” di cui una quota “da restituire a partire
dal termine degli studi” e a garantire “finanziamenti” (prima del passaggio in Senato si parlava
esplicitamente di “prestiti d’onore”) (art.4.1.b e c). Come dire: nessuno ti regala niente, devi ridare indietro
tutto, esattamente come in banca!
Sembra inutile sottolineare come il concetto di merito, soprattutto in una società in cui ciascuno parte da
condizioni economiche e culturali assai differenti, sia solo un paravento ideologico dietro cui nascondere
la volontà di preservare le differenze esistenti. La “qualità” e l’“efficienza” diventano i nuovi valori per
imporre la logica imprenditoriale alla politica universitaria (e, più in generale, all’intera pubblica
amministrazione), ma che non si tratti di valori assoluti è evidente. Uno stesso strumento può essere
efficiente e di buona qualità se valutato rispetto a determinati obiettivi e inefficiente e di bassa qualità se
valutato rispetto ad obiettivi diversi. Un’università che fornisce gli strumenti critici ai propri studenti può
essere considerata efficiente e di buona qualità se valutata rispetto agli obiettivi dell’emancipazione
individuale e sociale, mentre appare senz’altro inefficiente e di bassa qualità se l’obiettivo è quello di formare studenti pronti ad obbedire ed eseguire i compiti che verranno loro affidati da qualche datore di
lavoro…
In un contesto ideologico e culturale egemonizzato dal mercato e dalla cultura d’impresa, non è difficile
capire quali siano gli obiettivi sottintesi da Tremonti, Brunetta e Gelmini quando parlano di qualità ed
efficienza: indirizzare la ricerca scientifica e l’offerta formativa verso traiettorie utili, direttamente o
indirettamente, ai profitti delle imprese. E se individui o università vogliono fare di testa loro, si tagliano
loro i viveri.
Ma chi finanzierebbe questo Fondo per il merito? Qui la Gelmini (una che per passare il concorso da
avvocato ha dovuto cambiare residenza) centra il ridicolo: una parte verrà dalla contribuzione studentesca
alla prova nazionale standard (art.4.4), che individua gli studenti “eccellenti” che possono accedere al
Fondo, un’altra parte dalle “donazioni” di privati, che potranno effettuare i loro versamenti “a titolo
spontaneo e solidale […] anche vincolati, nel rispetto delle finalità del fondo, a specifici usi” (art.4.7.a).
Insomma, non solo gli studenti in cerca di una borsa devono pagare la prova (e quanti non possono e
quindi non concorreranno?), ma questa tassa va a finanziare gli studenti meritevoli (quasi certamente
ricchi o benestanti). Un perverso Robin Hood, che ruba ai poveri per dare ai ricchi, non è all’opera solo nella
Finanziaria, ma anche all’Università… Quale solidarietà potrà poi avere un imprenditore a finanziare un
ateneo non l’abbiamo ancora capito. Spirito caritatevole cristiano?
A tutto ciò bisogna aggiungere i nuovi tagli, denunciati a fine agosto anche da vari giornali: se nel 2009-10 i
finanziamenti per le borse erano in calo di 146 milioni, per l’annata 2010-11 è previsto un ulteriore taglio
di 24 milioni5.
Riprendiamoci quello che ci hanno preso!
L’istruzione pubblica (ma purtroppo anche la privata) è finanziata con le tasse, ovvero con i soldi del lavoro
dipendente, visto che gli imprenditori, i palazzinari, i commercianti le tasse in Italia non le pagano… Ogni
provvedimento che smantella il settore pubblico è dunque un attacco diretto alle nostre condizioni di
vita, è un uso improprio dei nostri soldi, che vanno a finire nelle tasche dei più ricchi! Ora con la scusa della
crisi, e agitando lo spauracchio della Grecia, il Governo prova a tagliare tutto il settore pubblico,
impedendone il funzionamento, in modo poi da poterlo vendere pezzo per pezzo ai privati; Confindustria
accelera l’attacco al Contratto collettivo nazionale (CCLN) puntando alla frammentazione dei lavoratori,
spalleggiata come sempre dall’esecutivo che per di più si permette di dichiarare un “lusso” la legge sulla
sicurezza sul lavoro (la famosa 626/1994) – così “lussuosa” che l’Italia è il Paese dell’UE con la media annua
più alta di morti sul posto di lavoro – e di potenziare i ricatti, le logiche gerarchiche e di controllo per
impedire che ci si possa ribellare.
Si tratta quindi di riprendersi ciò che in questi anni ci hanno rubato, prima che sia troppo tardi, e ci
ritroviamo ancora più deboli, ancora più soli, ancora più in guerra l’uno contro l’altro!
Che ci sia malessere nei confronti della Riforma Gelmini e di questi ulteriori provvedimenti, è evidente: in
tutto il comparto formativo, e in maniera trasversale – dagli studenti alle maestre, dagli insegnanti precari
ai ricercatori… Anche prima dell’approvazione del DDL da parte del Senato, in molte università alcuni hanno
cominciato ad opporsi al disegno di legge6, e la protesta in questi primi giorni di settembre sembra
allargarsi a macchia d’olio con la mobilitazione dei precari scuola. In tutta Italia infatti sono tante le scuole
(dagli istituti materni alle scuole superiori) che hanno cominciato il primo giorno di lezioni e attività in un
vento di proteste: decine e decine sono le azioni di protesta che ogni giorno simultaneamente vengono portate avanti dai precari della scuola, sia perché rischiano il licenziamento sia perché rischiano di non
essere assunti. Dai presidi nelle maggiori piazze di varie città italiane, alle occupazioni dei provveditorati
fino ad arrivare al blocco dello Stretto di Messina di lunedì 13 settembre. Anche se la mobilitazione per ora
riguarda solo un settore specifico dell’università e degli istituti, quello che il DDL rappresenta è un attacco
generalizzato al diritto allo studio ed è per questo che anche la componente studentesca non può restare
indifferente al processo di smantellamento dell’università pubblica e al progressivo assoggettamento di
questa agli interessi aziendali e di chi vuole gestire tempi, modi e spazi del nostro studio e della nostra vita.
La nostra risposta, per avere forza effettiva, deve essere adeguata alla natura di ogni attacco sferrato alle
fasce più deboli della società, sotto qualsiasi forma esso si presenti. Per vincere dobbiamo unire le lotte di
chi ha tutto da perdere nell’attuale stato di cose. Il grembo che partorisce questi provvedimenti è sempre
lo stesso, che si concretizzi in licenziamenti di massa, nella privatizzazione di servizi essenziali come l’acqua,
i trasporti o la sanità, che faccia sì che il sistema di istruzione pubblica accentui la selezione di classe o che
esso neghi i diritti dei migranti creando falsi problemi e alimentando il razzismo.
È contro la matrice capitalista che bisogna impegnarsi, iniziando dai luoghi che viviamo, contrastando ogni
immobilismo, disfattismo e il “moderatismo” che tanti danni hanno fatto per vent’anni, con la
consapevolezza che l’unico sbocco reale che la nostra lotta può avere è proprio nel collegamento con
tutte le altre lotte che si sviluppano sul territorio!

1 Questo processo di aziendalizzazione l’abbiamo ad esempio già visto all’opera nelle riforme sanitarie degli anni ’90, e con il
passaggio alle ASL (non a caso “Aziende Sanitarie”), che rispondono innanzitutto a logiche “costi/benefici” indipendentemente dai bisogni e dai diritti dei cittadini, lasciando ampi margini di manovra a politici, Direttori Sanitari, case farmaceutiche e privati,
generando così un visibile peggioramento del servizio, fenomeni di corruzione ed un aumento esponenziale dei casi di malasanità.
2 Un caso limite di questa tendenza, ancora poco diffuso in Italia, è costituito dalla corporate university, strutture accademiche
interamente finanziate e gestite da imprese private.
3 Un esempio recente è la “fusione” del corso di Scienza Politica fra l’Università di Macerata e quella di Camerino, dettato non dalla
qualità dell’offerta formativa ma, come recita il DDL, dalla necessità di “razionalizzare “le spese. Così un corso che funzionava è

stato semplicemente soppresso da una delle Università, con conseguente danno di lavoratori e studenti.

4 Inutile dire che l’aumento sarà più consistente nelle università del Sud, ed è già effettivo nel caso dell’Università di Reggio Calabria
e in quello dell’Orientale di Napoli…

5 Su questo vedi gli articoli e le tabelle pubblicate nel nostro speciale sull’Università su http://www.rednet.
it/index.php?option=com_content&view=article&id=385:speciale-ddl-1905-lautunno-ci-aspetta&catid=48:scuola-euniversita&
Itemid=59. Il Sole24Ore, ad esempio, sostiene che al Sud percepiscono borse di studio solo il 60% degli aventi diritto.
Cioè sei povero e meritevole, hai ragione, ma i fondi non ci sono! Senza contare la situazione disastrosa delle residenze
universitarie, in cui sono ospitati solo il 20% degli aventi diritto (al Sud l’11,4%)!
6 Dai dati raccolti in 44 atenei (sui 66 totali che esistono in Italia) risulta che, su 15856 ricercatori, 9969 di questi (pari al 62.87%) si
sono dichiarati indisponibili alla didattica non obbligatoria per legge (dati in aggiornamento su http://www.rete29aprile.it).


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