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Assemblea Nazionale – documento politico stilato al termine della due giorni di discussione

by on Dic.30, 2008, under Generale

DOCUMENTO POLITICO DELL’ASSEMBLEA NAZIONALE

13-14 DICEMBRE – Tor Vergata (ROMA)

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Rete delle realtà studentesche autorganizzate

Il
13 e 14 dicembre 2008 si è tenuta all’Università di Tor Vergata
un’assemblea nazionale di movimento, nata da un’esigenza largamente
condivisa da quei singoli e realtà politiche che hanno attivamente
preso parte, in questi mesi, alle proteste contro la legge 133 e contro
tutte le misure governative in materia di Scuola, Università e Ricerca.
Dopo una prima fase di mobilitazione, in cui l’agitazione spontanea è
stata predominante, si sono infatti cominciate a definire le
rivendicazioni e a costruire le piattaforme politiche, entrando nel
merito delle tante questioni aperte dal movimento. In questa seconda
fase ci siamo resi conto che, condividendo punti di vista e
prospettive, era necessario socializzare i percorsi di lotta e le
analisi politiche maturate negli ultimi mesi e negli anni precedenti.
Naturalmente quest’assemblea non ha rappresentato che un primo
passaggio, necessario ma non sufficiente: quello conseguente è lavorare
insieme per incidere in maniera efficace sul tessuto sociale e sulla
realtà quotidiana.

La due giorni di intensi dibattiti si è articolata in due momenti di
confronto assembleari sull’autorganizzazione, e in due tavoli di lavoro
plenari, che hanno affrontato il rapporto fra “Scuola e Università,
Capitale e Lavoro” e fra “Università e movimenti sociali”. La prima
necessità dell’assemblea è stata infatti quella di fare il punto sulle
varie esperienze di mobilitazione, e di portare avanti l’analisi
teorica in modo da strutturare meglio le proprie pratiche.
Non è quindi un caso che il perno della discussione in tutte le
assemblee sia stata la lettura della crisi economico-finanziaria.
Differentemente da tutti quelli che hanno sprecato fiumi di inchiostro
sostenendo che la “crisi” è solo “crisi della finanza”, noi siamo
convinti della necessità di ribadire che si tratta sì di crisi, ma di
una crisi di accumulazione capitalistica che viviamo da almeno
trent’anni, e di cui la recente deflagrazione finanziaria è soltanto
l’ultimo, violento, momento di svolta. I meccanismi di speculazione e
indebitamento, che oggi vediamo crollare, non sono infatti il prodotto
di alcune “mele marce”, ma una delle strade battute a partire dagli
anni ’70 per sopperire alle difficoltà di valorizzazione dei capitali.
Mettere in discussione il capitalismo significa quindi prima di tutto
chiarire che non può esistere un lato ‘buono’ di un sistema fondato su
sfruttamento ed oppressione: finanza ed economia reale sono due aspetti
dello stesso modo di produzione. Condannare il capitalismo rapace degli
speculatori e delle banche, lasciando intendere che ve ne sia uno buono
da difendere, o uno “sostenibile”, significa mistificare la realtà, e
cedere le proprie armi critiche al nemico.

Per tentare di uscire da questa crisi di accumulazione, il capitale
ha messo in campo diverse strategie: oltre alla finanziarizzazione e al
controllo dei fondi e delle politiche monetarie attraverso
organizzazioni transnazionali, è ricorso anche alla guerra globale e
allo sfruttamento massiccio dei paesi del Sud del mondo (sia
delocalizzando lì la produzione, sia abusando delle ingenti risorse
naturali di quei territori). I governi e gli imprenditori, con la
collaborazione di finte opposizioni politiche e il ruolo attivo dei
sindacati concertativi, hanno poi attaccato direttamente le condizioni
di vita delle classi subalterne. Hanno tentato di ridisegnare tutta la
società, modificando alcuni aspetti fondamentali della sua
organizzazione: il ruolo dello Stato, il mercato del lavoro, il sistema
pensionistico, la sanità, i trasporti, incentivando lo scempio
ambientale e la privatizzazione di risorse quali l’acqua e l’aria. In
questo modo hanno limitato e depotenziato la conflittualità sociale,
aperto incessantemente nuovi spazi di mercato, suscitato ad arte nuovi,
redditizi bisogni.

In questo vasto processo di precarizzazione e sfrenata
mercificazione, l’istruzione e la ricerca non sono state risparmiate,
ma riformate rispondendo all’esigenza di costruzione di un’economia
basata sulla conoscenza. È per costruire uno Spazio Europeo
dell’Educazione Superiore e della Ricerca (funzionale, insieme
all’Esercito europeo, all’aspra competizione sullo scenario mondiale)
che i governi dei paesi membri dell’UE stanno armonizzando i sistemi di
istruzione, portando avanti, pressoché ovunque, “riforme” di stampo
neoliberista (si pensi alla Francia, alla Spagna, alla Grecia).
Indagare le connessioni che esistono tra il sistema formativo, il
quadro economico generale e le ristrutturazioni che avvengono a livello
europeo ci ha permesso di comprendere in che modo i meccanismi di
selezione di classe e di disciplinamento si sono evoluti e si evolvono,
proprio a partire da scuole ed università.

Da questo punto di vista, l’introduzione del 3+2, di stage e
tirocini obbligatori durante il corso di studi, del sistema dei crediti
formativi (CFU), il nuovo ruolo dei privati negli atenei, il life-long
learning, lo smantellamento di ciò che resta del diritto allo studio
(mense, residenze, borse di studio), sono solo alcuni degli elementi
concreti emersi durante la discussione assembleare.

Il credito formativo è stato uno dei punti dirimenti del confronto:
la posizione “suggerita” dai report della Sapienza (workshop del 15
novembre), ovvero l’abolizione del sistema dei CFU attraverso un loro
“inflazionamento”, è stata messa duramente in discussione. Il credito è
definito come la misura del volume di lavoro di apprendimento, compreso
lo studio individuale, richiesto ad uno studente in possesso di
adeguata preparazione iniziale per l’acquisizione di conoscenze ed
abilità nelle attività formative previste dagli ordinamenti didattici
dei corsi di studio (cfr. Decreto Ministeriale, 3 nov. 1999, n. 509).
Non è altro che una misurazione matematica del tempo di apprendimento
(e non della conoscenza) che ha contribuito all’ulteriore
dequalificazione della didattica. Esso racchiude la somma di lavoro che
va dalla didattica frontale (apprendimento formale), allo studio a
casa, fino all’acquisizione di skill e dispositivi pratici sui luoghi
di lavoro (apprendimento informale). Non importa dunque l’acquisizione
di un metodo, o una complessiva crescita culturale e personale, ma solo
il riempimento di tempo “vuoto” con una serie di nozioni parcellizzate.
Se dunque da una parte il credito formativo spinge ulteriormente in
avanti il processo di mercificazione dei saperi (si pensi anche alle
vergognose convenzioni con corporazioni di ogni tipo che le Università
hanno sottoscritto per fare cassa, rese possibili proprio
dall’introduzione del CFU), dall’altro contribuisce a creare uno
standard comune di accesso al mercato del lavoro a livello europeo.

Così, l’ipotesi di “inflazionamento” dei CFU è paradossale e segna
un arretramento delle nostre lotte: si dice di criticare il contenuto,
ma non si tocca il contenitore. Piuttosto si collabora e legittima il
sistema dei crediti, gli si conferisce credibilità presso gli studenti,
e si portano, già nella fase della formazione, logiche baronali e di
cooptazione, attraverso lo sviluppo di rapporti privilegiati con i
docenti e con le autorità accademiche che devono riconoscere il
“controcorso” (e che non hanno troppi problemi a farlo, visto che nel
quadro di un assoggettamento totale dei percorsi curriculari alle
esigenze del capitale, viene prevista quest’irrisoria valvola di sfogo:
già la legge Ruberti del 1990 prevedeva attività formative autogestite
dagli studenti; Zecchino consente poi che una piccolissima percentuale
dei crediti formativi sia riservata ad attività formative autonomamente
scelte dallo studente – cfr. stesso Decreto Ministeriale).
L’autoformazione con i crediti è così perfettamente compatibile con le
esigenze dei poteri accademici e economici, non li scalfisce, ma anzi
li rafforza, svolgendo la funzione di moderare le lotte.
L’unica posizione possibile e necessaria è quella di lottare senza
ambiguità per l’abrogazione del sistema dei crediti, portando avanti
iniziative culturali, incontri, dibattiti davvero autogestiti e
orientati in modo antagonista; non facendo tesoro di qualche “lezione”
calata da professori o da ricercatori in cerca di visibilità, ma del
confronto orizzontale fra i soggetti mobilitati e con soggetti esterni
alle università, come lavoratori, migranti, realtà di movimento. Non si
tratta insomma di rinchiudersi nelle aule privilegiate del “sapere”, ma
di rendere l’Università un luogo di transito per le lotte aperte nelle
metropoli e nei territori. Perché l’università non è degli studenti, è,
o dovrebbe essere, di tutti, al servizio della collettività.

Bisogna quindi anche mettere in questione tutte quelle proposte
volte a sgravare lo Stato dagli oneri del sistema formativo. Si pensi
alla spinta pubblicitaria verso i prestiti d’onore, che mirano a far
acquistare allo studente il proprio “pacchetto formativo”. Viene
caldamente “proposto” allo studente di indebitarsi, per avere la
speranza che con la laurea trovi un lavoro ben remunerato, che possa
estinguere il debito contratto nei confronti del finanziatore (che può
essere una banca, ma anche un’azienda alla quale ci si lega
fideisticamente). Così è lo studente che investe su se stesso, con
buone prospettive di finire doppiamente ricattato: dal padrone a lavoro
e dal “finanziatore” del prestito d’onore. Un tale sistema (proprio
come quello dei mutui “drogati”) è in crisi persino negli stessi paesi
dove è più radicato, e ha come principali conseguenze l’esclusione
sociale, la ricattabilità dello studente, il suo indottrinamento
forzato, la spinta a una competizione feroce con i suoi compagni.

Anche i tentativi di abolizione del valore legale del titolo di
studio, supportati non a caso da grandi multinazionali, vanno in questo
senso. In generale l’obbiettivo del capitale è quello di costruire da
un lato un’Università di massa adeguatamente dequalificata, dove si
sfornano lavoratori a basso costo, esposti alla precarietà, costretti a
cicli di formazione continua e a pagamento (master, corsi di
specializzazione etc), che possano rappresentare un “esercito di
disoccupati” disperati e in competizione fra loro, e dall’altro lato di
creare invece pochi luoghi di formazione altamente selettivi in cui si
forma la classe dirigente solidale alle sue esigenze. Da questo punto
di vista l’“emergenza”, lo “spreco” e la “meritocrazia” sono i
paraventi ideologici con cui si cerca di veicolare riforme che in
effetti rafforzano proprio l’arbitrio baronale e la dequalificazione
dell’Università pubblica.

Per questo motivo un altro punto cruciale sul quale si è concentrata
l’attenzione del movimento è quello della trasformazione delle
università in fondazioni di diritto privato. Una tale possibilità, che
per molti atenei diventerà obbligo, comporterà da una parte che
l’ingresso dei privati nei dipartimenti diventerà sempre più stabile,
dall’altra che quei corsi di laurea che non rispondono a “criteri di
produttività” verranno tagliati limitando inevitabilmente la libertà di
studio nonché quella di insegnamento e ricerca. In generale, la
trasformazione delle università in fondazioni, che è l’estremo effetto
della privatizzazione (non si incide più con riforme curriculari o con
una generica collaborazione con soggetti privati, ma tagliando
nettamente i fondi, e costringendo dunque gli atenei a immettere al
loro interno le uniche realtà capaci di erogare liquidità), non farà
che aumentare le molteplici contraddizioni in cui l’università è
inserita. Contraddizioni articolate su più livelli: fra logiche
baronali e politico-clientelari; fra le diverse cordate d’interesse;
fra il personale tecnico amministrativo e le dirigenze accademiche; fra
le masse sempre più numerose di studenti esclusi dai livelli più alti
della formazione e i meccanismi sempre più rigidi di selezione,
repressione e controllo; fra le aspettative professionali degli
studenti che completeranno il proprio percorso di studi e la loro
crescente dequalificazione; fra i capitali stessi, in competizione per
assicurarsi corsi di laurea favorevoli e “prestazioni d’opera
vantaggiose”; fra Dipartimenti Atenei, Centri di ricerca, in
opposizione, contro il buon senso e le pratiche di condivisione in uso
fino a qualche decennio fa nella ricerca pubblica, per la registrazione
di un brevetto o per accaparrarsi una fetta più grande di finanziamenti.

In questo quadro gli stage ed i tirocini sono un altro aspetto del
riassetto dell’istruzione tutta, in funzione del mercato: acquisire
conoscenze, attraverso la pratica sul posto di lavoro, è considerato
formativo per gli studenti fin dalle scuole medie superiori. Ancora una
volta, viene cancellata persino la parvenza di una cultura critica e
slegata da logiche aziendalistiche: se da un lato parliamo di
prestazioni di lavoro gratuite che permettono, in molti casi, di
abbassare i costi per il personale di università e aziende non
assumendo per gli incarichi coperti da stagisti, dall’altro il costo
della formazione dei soggetti in ingresso (prima integralmente a carico
dei privati) viene scaricato sulla collettività.
Stage e tirocini si delineano, quindi, come ulteriore ricatto per i
lavoratori, in una fase in cui aumenta giorno dopo giorno il numero dei
disoccupati, dei cassa-integrati e dei licenziati e in cui peggiorano
visibilmente le condizioni di lavoro dello stesso personale nelle
scuole e nelle università: si pensi all’esternalizzazione dei servizi,
delle mense, delle biblioteche, che vengono affidate a imprese
appaltatrici o subappaltatrici le quali non applicano ai lavoratori
nemmeno le poche tutele tradizionali, e su cui il pubblico non ha più
alcun controllo (con conseguente aumento del costo dei servizi e
diminuzione della qualità).

Alla questione della mercificazione dei saperi è strettamente legato
il modo in cui si configurano la didattica ed i suoi tempi nelle nostre
aule: il voto, la lezione frontale, i ritmi serrati delle lezioni, sono
strumenti che non permettono la fruizione di una cultura che possa
realmente formare soggetti critici, ma contribuiscono a riprodurre
l’ideologia dominante di cui l’università si fa portatrice. È per
questo che non ci si può richiamare a cuor leggero al Trattato di
Lisbona o alla Carta europea della Ricerca: questi sono piani per la
costruzione di una ricerca funzionale allo sviluppo capitalistico ed a
essa subordinata, non certo per lo sviluppo di un sapere libero.

Da questo punto di vista è importante ribadire come per “ricerca
pubblica” non si intenda una ricerca genericamente finanziata dallo
Stato e non dai privati, ma una ricerca che sia a beneficio della
società. Una tale ricerca implica un cambiamento radicale della nostra
società, della sua organizzazione politica e sociale. Oggi, anche
laddove i fondi sono pubblici, la ricerca ha preso strade che devono
assolutamente essere contestate. Sono infatti pesanti le responsabilità
del mondo accademico nel prestarsi a fornitore di servizi per
l’industria bellica, finendo per essere un utile strumento al servizio
delle politiche imperialiste di guerra. E ancora, didattica e ricerca
vengono oggi finalizzate allo sviluppo di prodotti farmaceutici,
chimici, informatici, che saranno poi brevettati da quelle stesse
aziende che ne ricaveranno profitti. Nel campo delle scienze umane
questo vuol dire sviluppare sistemi di analisi e controllo, tecniche di
promozione pubblicitaria, funzionali all’integrazione, alla
spettacolarizzazione, al disciplinamento di vasti settori sociali
potenzialmente conflittuali. Nel campo storico-letterario i
condizionamenti dei fondi nazionali ed europei permettono una
riscrittura della storia e della cultura a vantaggio delle esigenze
attuali della classe dominante.

Per quanto riguarda il ruolo nella lotta dei dottorandi e dei
ricercatori, soggetti chiamati in causa in prima persona in questo
processo di ristrutturazione dell’Università e dello stato sociale, è
per loro naturale, o dovrebbe esserlo, trovarsi alleati agli studenti.
Come questi ultimi, essi subiscono una selezione di classe, che lascia
a pochi la possibilità di andare avanti negli studi e di permettersi
lunghe “attese”; per di più essi soffrono anche quei meccanismi di
cooptazione e baronato che limitano la libertà della ricerca, ancor più
minata dall’ingresso dei privati, con la possibilità (non remota e già
presente in alcune facoltà scientifiche) che si ricerchi direttamente
su commissione.
È per questo complesso di motivi che non si può parlare di “centralità
del capitale cognitivo” o di funzione trainante dell’Università
all’interno delle lotte. Non bisogna lasciarsi ingannare da formule
demagogiche: da un lato bisogna riconoscere che il lavoro cosiddetto
manuale non ha avuto né il tempo né l’agio di sviluppare teorie sulla
sua centralità, anzi, è stato fatto sparire dall’informazione e dal
dibattito culturale, con la complicità proprio delle elucubrazioni
postfordiste; d’altro canto bisogna riconoscere che esso ha sempre di
più assorbito funzioni intellettuali (cfr. il problem solving nei
processi produttivi, a cui gli operai partecipano quotidianamente),
mentre il lavoro “cognitivo” è spesso basato su precise funzioni
materiali (cfr. le mansioni amministrative svolte da molti dottorandi e
ricercatori). Nel rispetto delle specificità e delle condizioni
concrete di vita, bisogna notare che le figure lavorative sono quindi
inserite nello stesso ciclo produttivo: entrambe concorrono alla
valorizzazione delle merci, entrambe sono esposte a processi di
precarizzazione, entrambe vengono private di contratti collettivi
nazionali e dei diritti sociali (quali quelli alla casa, alla pensione
etc). Le risposte che il capitale ha dato alla sua crisi trentennale
hanno tentato in ogni modo di frammentare la classe, opponendo
artificialmente il lavoro “cognitivo” al lavoro “manuale”, offuscando i
confini spesso molto labili che circoscrivono i due ambiti, e cooptando
il primo con privilegi di casta e fornendogli un certo status. Per
questo, anche se nel mondo della ricerca ci sono alcuni soggetti in
attesa di “inserimento”, o che potranno sempre trovare un remunerato
impiego nelle aziende, bisogna rilanciare una larga lotta unitaria fra
i tanti che di questa proletarizzazione e scomposizione di classe
patiscono le conseguenze.

Si è così giunti a una riflessione più larga sulla connessione che
bisogna instaurare fra i diversi ambiti del conflitto sociale. La
presenza di esponenti dei movimenti territoriali è stata fondamentale
per trovare il legame con le lotte contro la devastazione ambientale e
lo scempio territoriale. Non è un caso che nella stessa legge 133/08
sono contenuti, oltre ai tagli all’università, anche le misure di
privatizzazione dell’acqua e i finanziamenti per l’energia nucleare. È
lampante il nesso che lega lo smantellamento dell’istruzione e dello
stato sociale all’attacco all’ambiente e ai territori, soprattutto se
si considera, ancora una volta, il ruolo che la ricerca svolge (per
volontà del pubblico o del privato) nella devastazione e nello
sfruttamento ambientale, e la funzione assolta dai partiti e dai
sindacati confederali (in continuità con i ben noti meccanismi
clientelari, e spesso persino in collusione con mafie e camorre) nel
portare avanti logiche di profitto.

Di fronte alla crisi e al massacro che sta producendo, lavorare
sulle contraddizioni, iniziando a fare un discorso che miri dalle
nostre università a costruire un lavoro politico che non sia
studentista o corporativo, ma abbia la forza di collegarsi alle lotte
di tutti gli altri settori che pagano questa organizzazione
economico-sociale è dunque una necessità. L’obiettivo di tutti i
partecipanti all’assemblea è dunque quello di lavorare nella
prospettiva di un confronto stabile tra lavoratori e studenti (che sono
lavoratori in formazione, lavoratori di oggi e di domani),
assolutamente svincolato dalle pratiche concertative di alcuni
sindacati e partiti. Per questo motivo, è stato ritenuto fondamentale
proporre la costruzione di assemblee con altre realtà autorganizzate
non studentesche per provare a generalizzare realmente le lotte e
tendere col tempo ad allargare sempre di più i nodi del conflitto.

In conseguenza di ciò, partendo dalle nostre specificità locali,
abbiamo deciso di creare una rete di realtà studentesche che abbia un
respiro nazionale, ma che guardi anche alle proteste che si sviluppano,
contro le medesime riforme e attacchi, su un piano internazionale.
Intendiamo così coordinare in modo efficace le nostre lotte e dare uno
sbocco politico alle analisi condivise, dotandoci degli strumenti più
opportuni ed efficaci. Tra questi, abbiamo individuato un sito
internet, che funzioni come portale di collegamento nonché come mezzo
di comunicazione politica, punto di riferimento per quanti,
quotidianamente, lottano nella nostra stessa prospettiva.
L’autorganizzazione, in questo senso, è stata argomento centrale ed è
emersa come caratteristica fondamentale per costruire una struttura
orizzontale che riesca a porre nell’agenda politica una pratica
realmente conflittuale e di classe. Per aprire da ora, e nei prossimi
anni, un lungo ciclo di lotte sociali. Per osare combattere, e osare
vincere.

Roma, 14 dicembre 2008

RETE DELLE REALTÀ STUDENTESCHE AUTORGANIZZATE

studenti.autorg@gmail.com

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